Sul laboratorio “Piccole donne ritornano”. Volevamo essere…

di Ornella Cioni

Riflettendo sul quesito ispirato da “Piccole donne” mi sono resa conto di essere venuta in contatto con la saga Di L.M. Alcott quando ero piuttosto piccola, anche se poi ho portato con me questi libri da Nord a Sud e viceversa attraverso una decina di traslochi.
“Piccole donne” ed. C.E.L.I Bologna, illustrazioni di Luigi Spighi, in realtà non era mio, ma di mia sorella maggiore, che l’aveva ricevuto, come altri premi, per la sua bravura e diligenza a scuola. Non era mio, ma me ne sono impossessata per amore. Forse la prima volta me lo aveva letto proprio mia sorella, poi verso gli otto anni, diventata più sicura nella lettura, l’avevo riletto da sola. A quel punto avevo richiesto il seguito, “Le piccole donne crescono”, edizione cartonata Fratelli Fabbri, di cui sicuramente è stata fatta una doppia lettura, una individuale e una insieme a mia cugina, più grande di me di cinque anni e molto espressiva nella lettura ad alta voce. Ricordo quelle domeniche pomeriggio chiuse nella mia cameretta come uno dei momenti più felici della mia infanzia, per il piacere della lettura e la complicità nel condividerla. “Piccoli uomini” e “I ragazzi di Jo” li presi in prestito nella biblioteca scolastica. I quattro volumi non li ho più riletti da allora e adesso ho dovuto un po’ ricostruire i passaggi vissuti verso i personaggi.

In un primo momento le mie preferenze andavano verso la dolce Beth, ma quando cominciò ad ammalarsi fino a morirne divenne difficile, per una bambina di otto-nove anni, immedesimarsi con la personaggia segnata da una vita così breve e una sorte così crudele.

Meg certamente non mi attraeva, troppo perfettina, conformista, quasi rassegnata: un matrimonio in giovane età con un ragazzo buono, onesto e modesto e una immediata doppia maternità. Una vita senza sogni.

Amy, sciocchina e capricciosa nel primo volume non mi piaceva e Jo estrosa e piena di vita era la indiscussa protagonista. Ma una vera e propria individuazione con lei forse non avvenne mai da parte mia. In famiglia le mie alzate di capo e le mie intemperanze non erano apprezzate e il modello sempre additato, come del resto avveniva a scuola, era quello della brava bambina, rinforzato dall’esempio vivente di mia sorella. Identificarmi con Jo forse non mi parve appropriato, ma anche la ricorrente definizione di maschiaccio non mi calzava: già allora ero solidamente insediata nel mio femminile. Mai desiderai essere un maschio, l’orgoglio di essere una bambina l’avevo imparato da mia zia Teresina quando si narrava della mia nascita e del suo brusco redarguire una parente che si mostrava delusa per la nascita di una nuova femmina.

Forse ero troppo piccola e di Jo non riuscivo a cogliere tutte le sfaccettature e non so quanto potessi essere influenzata dalla lettura comune con mia cugina di tredici, quattordici anni, che già pensava ai primi amori. A Jo non perdonai mai il rifiuto di Laurie: era il “sogno d’amore” tradito. E certamente in “Le piccole donne crescono” desiderai essere Amy, “Il sogno d’amore” realizzato.

In realtà neanche Jo era così lontana dal voler realizzare, insieme ai suoi progetti, il “sogno d’amore”. Anche se approderà a un amore più meditato, temprato dalle vicende della vita. Cesare Catà, nell’introduzione a “L’eredità”, opera prima di L.M.Alcott scrive: “ Nella vita siamo tutti soli, alla fine del cammino, come il prof Baher sotto la pioggia. A meno che qualcuno non ci stringa a sé, per dirci illuminandoci il sentiero, che – da quel momento e per sempre – le nostre mani vuote, vuote non saranno più”. Ma era un po’ troppo complicato per una bambina della mia età.

Così non fu Jo a farmi prendere coscienza della mia parte creativa e trasgressiva, ma una grossa biografia di Van Gogh, un libro non per bambini, che un’amica di famiglia, vista la mia passione per la pittura, mi prestò da lì a poco. Fu leggendo quel libro che sentii profondamente che non avrei potuto avere una vita convenzionale e che cominciai a sognare la bohème parigina di Montmartre.

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