Quello che avrei volute dire di Eloisa

Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Davide Orsini in ricordo di Eloisa Manciati. Ricordiamo che, indipendentemente dalla recente pubblicazione cartacea di Una biografia collettiva di Eloisa Manciati, la biografia collettiva online continua. Saremo liete/i di ricevere ricordi e contributi in proposito.

Quello che avrei voluto dire di Eloisa
di Davide Orsini

Io Eloisa non l’ho conosciuta intimamente, come invece ha fatto la maggior parte di voi. Ci siamo incontrati. I nostri incontri sono stati saltuari, ma intensi, per lo più in occasioni politico-istituzionali. Io ero piuttosto giovane, avrò avuto diciassette anni, già responsabile della Sinistra giovanile nell’allora PDS di Orvieto. Come ogni adolescente in cerca di identità avevo scelto la parte dalla quale stare, con tutto l’armamentario ideologico che le letture mi consentivano di sfoggiare in presenza di voci ostili, o discordanti. La convinzione più grande era che avrei fatto qualcosa di nuovo e di diverso dai politici tradizionali che del partito avevano fatto una ragione di vita, nel senso che campavano grazie alle prebende degli incarichi istituzionali e para-istituzionali ciclicamente distribuiti fra i membri della “classe dirigente”. Seguivo allora le sorti di un sindaco di polso, uno venuto “dalla gavetta” come si diceva allora in spregio al “culturame”, come venivano definiti gli intellettuali locali che avevano immaginato Orvieto diversamente tra la metà degli anni settanta e la fine degli ottanta. Avevo immaginato il potere come capacità di fare altrimenti, invece mi ritrovai invischiato nella sua gestione, un gioco a somma zero, in cui tutto veniva calcolato minuziosamente, senza nulla lasciare all’immaginazione. Così, fra l’incudine della mia voglia di cambiare ed il martello delle logiche di potere mi avviavo a vivere la mia personale inquietudine di giovane impegnato che non sa come disimpegnarsi, e si fa forte di ferree convinzioni: il principio di necessità.

Eloisa forse aveva intuito le mie ambizioni, ma vedeva in me la goffaggine di chi si porta appresso un fardello troppo pesante da consentirgli di trovare altre vie. Sapeva dei miei interessi per le “politiche giovanili”. Che brutto termine! Sapeva che volevo fare. “Ecco, allora vediamo che sai fare”, sembrava volesse mettermi alla prova. Cominciò a invitarmi a incontri che il suo ufficio organizzava con assessori e persone che a vario titolo contribuivano alla elaborazione di eventi culturali a Orvieto. Sembrava che quel mondo, dal quale io non provenivo, mi fosse sempre appartenuto. Eloisa era un pianeta misterioso. La sua forza mi attraeva in modo allora incomprensibile, ma gravitare nella sua orbita era un esercizio durissimo. Quella carica di energia era abrasiva. La forza d’urto della sua pedagogia spontanea, ma mai estemporanea, mai casuale, provocava un tale attrito da rendermi la vita che mi ero scelto più complicata del previsto. Sembrerà una contraddizione, per voi che l’avete conosciuta bene. Eppure Eloisa mi ha insegnato, indirettamente, il valore del compromesso. Ora lo vedo chiaramente. Formare un’identità significa affrontare il conflitto. Anzi, significa farlo proprio, un metodo di lavoro, una ragione di vita, se si vuol essere liberi. Identità e conflitto, indissolubilmente legati. “Ma tu chi sei?” mi chiese una volta. Io, un po’ sorpreso, quasi incredulo di fronte a una domanda che non so quanto sperassi fosse retorica risposi “Davide”, pensando “ma dove vorrà andare a parare”. “Si, ma chi sei? Che vuoi tu?”. Il momento duro era arrivato, il pianeta misterioso Eloisa cominciava ad esercitare la sua forza, cominciava a spingermi in altre direzioni dopo avermi attratto nella sua orbita. Era la domanda che avrei voluto evitare più di tutte. Come potevo essere me stesso all’interno di un partito assuefatto alle logiche di potere, senza ambizioni di reale cambiamento, morto nelle pratiche quotidiane, ammazzato dalla fatica della gestione, senza respiro per poter immaginare di fare altrimenti? Mi venne in mente, grazie a quelle domande scomode, che forse tutta la voglia che avevo di partecipare era in fondo una voglia matta di oppormi all’autorità: il sindaco padre, la segretaria madre, il partito macchina, la militanza disarmante. Vivere la mia identità politica avrebbe significato essere solo. Almeno all’inizio. Quella solitudine era l’unica condizione per capire veramente che cosa volessi, chi fossi. Solo dopo avrei potuto pensare al compromesso, non come atto pigro, rassegnato, o demagogico, ma come consapevole rinuncia di qualcosa di me per far spazio ad altro. Una pratica dolorosa se consapevole.

Ho visto Eloisa negata, respinta, esorcizzata, e redarguita dal potere. Eppure eccola lì, pronta a discutere nuovamente, pronta a convincere gli altri delle sue ragioni. E ne aveva. A distanza di tempo conservo questo ricordo di Eloisa, e il suo prezioso insegnamento: “Ma tu chi sei?” A volte guardo indietro e non vedo come avrei potuto fare certe scelte senza lottare, senza conflitti, anche e soprattutto con me stesso. Mi ripeto che per il compromesso ci sarà tempo, l’importante è essere pronti. L’importante è continuare a opporsi a ciò che non ci fa star bene, a costo di rimanere da soli, o forse proprio per ritrovarsi, da soli. Grazie, Eloisa.

 

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