“Dita di dama” di Chiara Ingrao. Macrostoria e microstoria nelle lotte operaie dal ’69 al ’72

dita_di_dama4di Ornella Cioni

Scorrono veloci come i giorni le pagine di “Dita di dama” di Chiara Ingrao, come i giorni della vita, che proviamo sempre un po’ di stupore e di incredulità quando ci guardiamo indietro o quando ci scivola lo sguardo il mattino sullo specchio e stentiamo a credere che quelle rughe siano proprio le nostre. Sì perché anche noi, come Maria e Francesca, non avevamo ancora vent’anni nel sessantanove e quella storia ci riguarda.

Il libro segna le tappe politiche fondamentali del periodo 1969-72, ma ciò che colpisce sono le tappe parallele delle giovani vite dei personaggi, gli snodi fondamentali attraverso i quali assumono senso esistenze che altrimenti potrebbero essere semplicemente spezzate o condannate all’ottusità di un percorso già segnato, di una vita senza niente da sperare. Macrostoria e microstoria si intrecciano e intorno alle due protagoniste si mette a fuoco un personaggio collettivo, dove distinguiamo ‘Aroscetta, Ninanana, Mammassunta e Seccardina e Antonietta, ma che è il gruppo delle operaie di una fabbrica di televisori, alla periferia di Roma, che dà vita e sostanza nella propria realtà a quelle lotte operaie che in quegli anni volevano cambiare non solo la fabbrica, ma anche la qualità della vita di ciascuna/o. E’ così che la vita di Maria, che sembrava spezzata dall’ingresso in fabbrica, vissuto dalla ragazza come una discesa agli Inferi, ritrova un senso e un progetto.

Sono gli anni del passaggio della rappresentanza operaia nelle fabbriche dalle Commissioni interne, irrigidite dalle burocrazie di partito, ai Consigli di fabbrica e anche Maria, “la delegata ideale” del suo reparto e le sue amiche “le rappresentanti dal basso”, vivranno le prime esperienze nel sindacato. Le loro prime lotte saranno proprio dentro il sindacato, contro l’ostilità della generazione delle Commissioni interne, uomini e donne, e contro l’impenetrabilità di un linguaggio politico sclerotizzato. Ma Maria non si farà fregare, come gli aveva raccomandato Roberto quando frequentava la scuola del sindacato e capirà presto qual è il suo vero compito: “Non sono loro, che devo imparare a capire. Sono quelle che mi stanno dietro, in mezzo ai fumi di stagno”. E tutte le sue energie e il suo impegno saranno concentrati a cogliere la problematicità della vita di fabbrica delle sue compagne e a tradurla in azione politica. Maria chiede aiuto a Francesca, la sua amica del cuore più fortunata, quella che non è dovuta entrare in fabbrica e ha potuto iscriversi a giurisprudenza. Chiede aiuto a lei per sbrogliare la matassa di delicate vertenze delle sue compagne più sfortunate, ma sarà Maria che così facendo guiderà Francesca a scoprire il fascino e il senso delle leggi, così noiose quando si preparano gli esami, così preziose quando servono a capire e a difendere la vita delle persone e a trovare la sua strada di avvocato del lavoro: “La legge è pure carogna, ho imparato da Maria. La legge sta lì e non schioda, lascia perdere che poi ci sono i mascalzoni che la violentano, o sono potenti e se la fanno riscrivere a modo loro; ma la legge come l’ho imparata io da quei giorni, come l’ho praticata tutta la vita, non è mica una madre comprensiva, che basta pregarla un po’ e ti fa contenta”.

Con una soluzione linguistica originale, di un italiano regionale, tipico del parlato, che a volte scivola nel romanesco più duro, l’autrice dipana la storia delle due amiche attraverso gli eventi fondamentali di quegli anni. Le bombe di piazza Fontana, gli scioperi a scacchiera, lo Statuto dei lavoratori, la legge sul divorzio, i conti che non tornano dell’incipiente terrorismo, la sempre più forte presa di coscienza delle donne, le prime mobilitazioni sull’aborto, il treno degli operai per Reggio Calabria. E in ogni pagina la bella, indelebile amicizia delle due ragazze, raccontata da Francesca con tutta l’ambivalenza, talvolta dichiarata, talvolta accennata, di una relazione che dura tutta una vita. I capitoli, che portano per titolo dei versi della Commedia dantesca, ci regalano pagine che sembrano sommesse, ma restituiscono una dimensione di epica popolare di quegli anni e riteniamo che questo sia un dono per chi quegli anni li ha vissuti, ma soprattutto per chi quegli anni deve imparare a conoscerli.

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