Una recensione sul libro di Maria Rosa Cutrufelli dedicato a Maria Giudice

di Ornella Cioni su Articolo21.org

Viene da lontano, per Maria Rosa Cutrufelli, la motivazione della scrittura della biografia di Maria Giudice (Maria Rosa Cutrufelli, Maria Giudice, Giulio Perrone  Editore, 2022).

Nella premessa racconta la sua amicizia con Goliarda Sapienza, figlia di Maria Giudice, ai tempi, negli anni Novanta, della frequentazione di un gruppo di scrittura e di dialogo con altre amiche. Ma più avanti nel testo rivela un altro debito contratto con Maria Giudice, che le ha ispirato ben due figure di donna nel suo romanzo sul Novecento, D’amore e d’odio (2008).

Cutrufelli sceglie come filo conduttore della biografia otto fotografie della sua protagonista o che la riguardano da vicino, significative di momenti  e aspetti fondamentali della sua vita e della sua personalità. La prima foto che introduce  la narrazione è quella, probabilmente una fototessera, che  generalmente compare negli scritti sulla protagonista: Maria, ancora giovane nonostante i capelli striati di bianco, col suo largo viso, forte e aperto.  E’ nata nel 1880 a Codevilla, nell’Oltrepò Pavese, il padre è un agricoltore, piccolo proprietario terriero né povero né ricco. Il nonno carbonaro, il padre garibaldino, Maria riceve in linea paterna la passione politica e in linea materna quella per la scrittura. Frequenta le scuole elementari a Voghera e poi, dopo un esame di ammissione, con la sola preparazione elementare, viene ammessa alla scuola Normale di Pavia, che l’avrebbe preparata a diventare una delle tante maestre di cui l’Italia analfabeta di allora aveva bisogno. E’ proprio a Pavia che comincia il suo apprendistato politico frequentando, insieme ad altri studenti, i Circoli Operai ed assistendo agli scontri di piazza per il pane. Siamo intorno al 1898 e proprio a Pavia Maria è in piazza quando durante un comizio socialista non autorizzato avviene l’uccisione del giovane Muzio Mussi, figlio di un deputato milanese. L’emozione è altissima, dopo Pavia a Milano ai moti popolari si aggiunge la protesta politica, stroncata con le cannonate di Bava Beccaris. Per Maria è un momento di svolta. Inizia intanto, insieme al lavoro di insegnante, il suo tirocinio giornalistico nel settimanale di Ernesto Majocchi “L’uomo che ride”. La sua vocazione pedagogica e per la scrittura verranno sviluppate e messe al servizio della lotta politica a cui Maria si andrà dedicando sempre di più.

Nel 1902 si iscrive al Partito socialista, nel 1903 diventa segretaria della Camera del Lavoro di Voghera, è una delle poche sindacaliste in Italia ed è anche una brava oratrice. Possiede l’energia della giovinezza e soprattutto una forte volontà, che è il suo mito: “Ognuno di noi ha tanti limiti, ma se si ha la volontà…”, dirà molti anni dopo alla figlia Goliarda. Maria ha iniziato il suo apostolato frenetico, sempre in movimento da un paese all’altro per “andare verso il popolo”, per comizi, scioperi e manifestazioni in cui a volte pratica la resistenza passiva, come si vede in una foto dell’epoca. Cominciano intanto le denunce e  i periodi di permanenza in carcere ed è proprio durante un periodo di detenzione che l’avvocato della Camera del Lavoro le fa conoscere un giovane anarchico, Carlo Civardi, che si sta avvicinando al socialismo riformista di Turati. E’ amore a prima vista e quando Maria esce dal carcere i due non si sposano, ma convivono in libera unione, come si usava dire allora. Maria ha delle idee precise sul matrimonio e sull’amore “che è cosa intima e assolutamente personale” che non va profanato con un atto pubblico e ufficiale. Cutrufelli sottolinea come questa posizione di Maria non sia semplicemente ideologica, né eccentrica come vorrebbero alcuni, ma sia invece una prova di pragmatismo e di autodifesa: non dimentichiamo che all’epoca una donna sposata era sottoposta alla cosiddetta potestà maritale.

E a questo proposito è interessante la riflessione che l’autrice inserisce sulla figura storica di Maria Giudice “Non solo gli amici e i nemici di allora, anche gli storici dei giorni nostri la presentano per lo più come un personaggio singolare. Una protagonista di spicco della storia dal basso, d’accordo, ma cos’è mai questa storia dal basso? Una storia minore e quindi eccentrica per definizione. Cioè distante dal centro, etimologicamente parlando. Fuori dai meccanismi del potere e, soprattutto, della logica comune. Come lo sono i suoi attori e protagonisti, a partire da Maria”. Osservazione che illumina sia la visione dell’autrice rispetto alla storia sia la sua intenzione, con questo lavoro, di dare giusta luce e spessore a questa figura di donna coraggiosa, la cui vicenda ricorda sotto alcuni aspetti la storia di altre donne, maestre e militanti politiche che in quel complesso periodo storico  dovettero far convivere la passione politica con una non sempre facile idea di emancipazione. L’autrice ci dice come già in uno dei suoi primi articoli su “L’uomo che ride” affrontasse l’argomento spinoso delle donne e il diritto di voto, sottolineando, soprattutto alle lavoratrici non convinte, come senza diritto di cittadinanza le donne non avessero alcun potere di incidere sulla società. Ciononostante Maria Giudice aveva in’idea un po’ eroica di emancipazione, che più che sui problemi specifici delle donne si doveva concentrare nella grande lotta di classe; come la sua amica Angelica Balabanoff, non vuole essere definita femminista: “Il femminismo, sostengono entrambe, non è nato dal malcontento di una classe ma dal malumore di un sesso … Non combattiamo le femministe, dice Maria, ma sorridiamo di fronte alle loro buone intenzioni: migliorare  la vita delle operaie, eliminare la prostituzione e tante altre belle cose che puzzano di filantropia lontano un miglio”.  Tuttavia, durante un periodo di esilio in Svizzera, insieme a Balabanoff fonderà il giornale “Su compagne!” che avrà un’ampia diffusione sia in Svizzera che in Italia.

Proprio in alcuni articoli di questo periodo Maria raggiungerà punte di radicalità mai manifestate arrivando a parlare degli uomini come di una classe, per cui, come la classe borghese, gli uomini non rinunceranno spontaneamente ai propri antichi privilegi: dunque le donne dovranno lottare per la loro dignità, “In nome dei nostri dolori”, dirà lei. Ma tutta la vita di Maria sarà fondamentalmente spesa nell’impegno per le lotte del partito e del sindacato, impegno che pagherà con numerose denunce e diverse condanne, fino a tre anni di carcere. Allo scoppio della prima guerra mondiale Maria si prodigherà generosamente nell’ampio movimento per la pace e proprio su questa divergenza ideologica si infrangerà anche il rapporto con Carlo Civardi, che partirà volontario per il fronte, dove perderà la vita. Dalla loro unione erano nati sette figli. Maria Giudice sarà presente a Torino il 21 agosto 1917  durante le lotte per il pane che  si trasformarono in sciopero generale e poi in una sommossa contro la guerra; per questo sarà processata insieme ad altri compagni, tra cui Gramsci, dal tribunale militare per insurrezione contro i poteri dello Stato e condannata a tre anni di carcere. Col suo orgoglio davanti ai giudici dice “Se non avessi sette figli orfani di guerra rinuncerei  alla mia difesa personale”, ma non potrà farlo, i figli sono troppo importanti: “I figli. La politica. Due esigenze irrinunciabili, due responsabilità che si contendono il suo cuore”. Alla maternità di Maria è dedicata la quinta fotografia, quella in cui appare circondata dai suoi sette figli “la versione profana di una Sacra famiglia”. Lo storico Vittorio Poma si interroga su questo suo eccesso nella maternità, insolito per una socialista, ma conclude che sicuramente la maternità è un desiderio di Maria e anche Cutrufelli è d’accordo: a suo parere questo è un altro segno dell’elasticità di comportamento e dell’autonomia di pensiero di Maria, ma anche forse un modo di compensare la passione politica o l’ostentazione pubblica di una forza intima, di una pulsione vitale che partendo dal suo corpo investe il mondo. Considerando tutto ciò Cutrufelli confessa che quando volle scrivere il suo citato romanzo sul Novecento si rese conto che non avrebbe “potuto raccontare le donne di quel secolo … se avessi ignorato Maria Giudice, i suoi slanci e le sue idee, la sua lezione politica e la sua umana follia”.

Dopo la guerra Maria continuerà il suo impegno nel giornalismo militante e nella politica e vivrà una seconda vita in Sicilia, dove stabilirà la relazione con  Peppino Sapienza, l’avvocato dei poveri, in una grande famiglia aperta con i suoi figli e quelli di Peppino, nati da un precedente matrimonio e fuori dal matrimonio. In Sicilia soffrirà le persecuzioni del regime fascista, che la allontanerà dall’ insegnamento per inadeguata “ condotta politica e morale”, subirà un attentato, sarà costretta all’isolamento con sorveglianza speciale, avrà altre tre gravidanze, ma solo Goliarda sopravviverà.

Le foto sette e otto raccontano l’ultima parte della vita di Maria, quando la figlia Goliarda, l’ultima figlia, “è diventato l’ultimo rifugio di sua madre”. Maria accompagnerà Goliarda a Roma mentre intraprenderà la sua carriera di attrice e frequenterà l’ Accademia di Arte drammatica e le darà l’ultimo insegnamento, quello della libertà, la libertà da conquistarsi malgrado la guerra, malgrado il fascismo, malgrado la vita sempre più difficile delle donne.  Maria scivolerà piano piano, dolorosamente, nella malattia mentale, ma lascerà un segno profondo nella figlia Goliarda, che  di ciò racconterà nel libro sulla sua difficile analisi “Il filo di mezzogiorno”. “La mia colpa, dirà in seguito lo psicanalista di Goliarda (o così gli farà dire Goliarda), “ è stata quella di sottovalutare la potenza di sua madre”.

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