Un ricordo

di Elvira Federici

Sono grata a Ornella Cioni che, aiutandomi a riordinare i ricordi, mi ha permesso di rimarcare la concordanza tra l’episodio che racconto – il seminario sul pensiero della differenza – e la pratica politica che ne scaturì.

Quanto è autobiografico quello che mi accingo a scrivere a proposito di Eloisa? Quanto staccato, separato da me il racconto di un momento, di un episodio, di un frammento della sua vita che racconterò come un passaggio significativo della mia?

Eloisa avrebbe considerato importante l’episodio che sto per raccontare?

Per me lo è stato e per più di una ragione, anche se forse fu una piccola cosa in sé, che io stessa ricordo confusamente quanto ai dettagli, e nitidamente quanto alla relazione politica con lei.

E’ il 1991, un anno che non finisce nella nebbia dei tanti che già sono alle mie spalle, un anno che brilla di inconsueto splendore, anno felice, di pienezza e sorprese, di viaggi e incontri. Anno in cui il quotidiano accadere reca tracce di epifanie. Momenti di essere da cui non si tornerà mai più ad un’idea anodina dell’esistenza, per quanto la vita ci provi a piegarti, a oscurarti, a domarti.

Eloisa ha organizzato nella casetta di Bolsena, in seguito agli incontri di quello che è ancora il Virginia Woolf B, un seminario con Angela Putino; i temi: differenza, autorità, affidamento, usciti dalla pratica politica della Libreria delle Donne e, proprio in quel momento, nell’opera cardinale del pensiero della differenza, L’Ordine Simbolico della Madre di Luisa Muraro.

La casetta è un luogo magico a cui tante donne, da ogni dove, fanno riferimento. Poggiata su pilastri, come una palafitta immersa nell’ombra fertile del lago di Bolsena; senza inferriate né cancelli, bisogna fare attenzione, passando lungo la provinciale, a trovare il varco tra edere e rovi.
Poi si schiude lo spazio accogliente, l’ albero grande – un olmo, un ontano?- contraltare della casa, prossimo alla riva del lago.
Attenzione, i miei ricordi delle circostanze possono essere imprecisi, sbaglierò qualche nome, qualche data, l’esatta cronologia, ma non confonderò il movimento di Eloisa in quello spazio. La sua signoria.

Numerose, ricchissime, indelebili le occasioni che Eloisa, attraverso un incessante lavoro politico- culturale, ha creato per le donne, le giovani, le insegnanti, in specie nella sua Orvieto.

Il Gruppo B del Virginia Woolf: psicanaliste, filosofe, insegnanti. Cito come mi vengono alla mente: Gabriella Marazzita, Elisabetta Zamarchi, Anna Salvo, Alessandra Bocchetti, Luisa Muraro, Chiara Zamboni – la Libreria delle Donne di Milano e la Comunità di Diotima di Verona – Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, la casa delle Donne di Pesaro, la Società delle Storiche, la Società delle Letterate.

In questa circostanza – per me e forse non solo per me – aurorale, fondativa, Eloisa ci mette anche di più. Non solo la sapienza, la visione, la determinazione capace di spuntarla sull’inerzia politica o burocratica: questa volta c’è anche la sua casa, l’accoglienza nel luogo più segreto e caro della sua vita. Il luogo dei luoghi. Messo a disposizione di tutte, perché non semplicemente si prenda parte a degli incontri, ma per creare le premesse di una pratica politica fondata sulla relazione fra donne.

Io torno un giorno prima del previsto da un bellissimo soggiorno ad Avignone: voglio esserci e arrivo che il luogo già brulica di donne giunte da ogni parte. Alcune si sono sistemate con tende e sacchi a pelo intorno alla radura dove ci riuniamo: sotto l’ ombra degli alberi o più vicino al lago.
Altre, tantissime, quelle che soffrono l’umidità, con brande di fortuna, oltre i letti presenti, dentro la casetta.

Dov’era Eloisa? In quale delle tre stanzette trasformate in accampamento femminile dormiva? Non saprei, ancora una volta la memoria che toglie all’esattezza aggiunge forse alla verità: Eloisa – insieme Marta e Maria, simboli di un’attitudine del pensiero nelle due facce della contingenza e della trascendenza – era occupata nella incessante tessitura di accoglienza, di imperioso accudimento, di preparazione del terreno: cuore, corpo e mente delle convenute; (dico: tessitura e ancora richiamo la duplicità di visione e concretezza, richiamo altre figure femminili del mito – Aracne, Penelope – tessitura come sapienza del saper restare in prossimità della vita senza perderne di vista il disegno).

Eloisa ci faceva conoscere, creava lo spazio dell’evento prima di tutto nelle nostre aspettative, negli scambi imprevedibili, nelle intese che si creavano tra noi, nel prendere la parola autonomamente, nel confronto in piccoli gruppi, nel cibo. Nel cibo che arrivava presto, al nostro risveglio, sotto forma di pane, focaccia, caffè, frutta… una meraviglia su cui ci gettavamo senza troppo pensare a chi l’aveva approntata, come il compimento della perfezione cui sentivamo di avere diritto, in quello scorcio d’estate, in quei giorni di fine agosto.

La “cura nel vivere” è fatta di gesti disegnati nell’aria, di ascolto di sé, di attenzione a realtà discordanti, di cura delle relazioni. Tutti questi sono gesti tracciati nell’aria, che non sembrano lasciare traccia e che non si cristallizzano in un prodotto… (Wanda Tommasi, citando Carla Lonzi, in “Etty Hillesum. La cura nel vivere”, Diotima); perciò non confondetevi, era politica quella e con la politica ci misuravamo accompagnando le riflessioni di Angela Putino e sperimentandone le dinamiche in corpore vivo.
E il conflitto, che è uno dei fondamenti della politica – imparare a farci i conti è politica – serpeggiava tra noi e aveva bisogno di essere nominato.
L’ autorità, la politica, il conflitto abitavano lo spazio personale di Eloisa, lei pericolosamente in bilico ed esposta, tutta intera, più di ciascuna di noi: perché in quello spazio né neutro né asettico, dove stavamo convivendo, dove stavamo condividendo nutrimento e idee, noi eravamo di passaggio mentre Eloisa faceva la sua scommessa di trasformare il luogo e l’esserci, nella politica prima di cui eravamo alla ricerca.

Ancora una volta non riesco a ricostruire esattamente gli accadimenti – e se ce ne furono. Mi tornano brandelli di commenti, colgo qualche tensione, punti di vista diversi sulle cose che forse non voglio raccogliere – sbagliando – come se di salvaguardare una sorta di fusionalità si trattasse e non di mettere in moto il desiderio femminile, lasciandolo agire fino alle conseguenze meno prevedibili.

Tornata che fui, seguirono giorni di una specie di stordimento intellettuale. Tante, troppe cose, idee, mondi. Nessuna paura: sono abbastanza grande per fronteggiare il silenzio/vuoto successivo ad un evento tanto denso e tuttavia: l’ansia di non tenere tutto, di non voler registrare nemmeno una perdita, uno scacco, una macchia nell’esperienza che, evidentemente, infantilmente, vorrei intrisa della stessa aura di perfezione che l’agire di Eloisa mi suggerisce.
Vorrei rileggere l’ esperienza per intero, ripercorrerla passo passo in quella strana peculiarità: donne, tante, diverse, in un spazio personale e privato che si faceva, in forza di quelle presenze e per il modo di abitarlo, politico. Vorrei farlo con Eloisa, che ne è l’artefice, la “destinatora”.

Fu così che presi carta e penna e le scrissi. Non c’era il computer allora. O meglio c’era ma lo si riservava ad altre scritture. Di certo non c’era la posta elettronica – pare di parlare dell’altro secolo ed è proprio così!
Una lettera richiedeva tempo, stesure, cancellature. Scrissi a caratteri grandi e febbrili su un numero cospicuo di pagine di un grande blocco a righe.
Scrivevo per restituire, politicamente, la mia riflessione a quella cui riconoscevo l’autorità, che aveva esercitato la sua signoria mettendo tutto in gioco: la sua presenza, la sua casa, la rete delle sue relazioni.

Cosa scrissi? Se cercassi tra i miei disordinatissimi archivi – cartelle, valigie, scaffali, cassetti – potrei ritrovare, documentare, citare un passaggio politico sulla “relazione fra donne” che avrebbe dato anche in seguito i suoi frutti, non sempre felici, comunque imprescindibili alla nostra storia.
Ma non voglio cercare, rileggere, documentare, voglio ricordare il movimento d’insieme che trasformò il racconto dell’ambiguità della mia esperienza in un confronto politico, che lei rese asciutto e implacabile.
Nella lettera toccavo, neppure troppo consapevolmente, i passaggi cruciali di quella relazione politica fondativa che avevamo imparato dalla Libreria delle Donne: autorità, affidamento, conflitto.

Scrivevo di una gratitudine autentica per quello che Eloisa aveva fatto accadere ma nel contempo la mettevo in guardia da una esposizione che mi sembrava avrebbe dovuto fronteggiare da sola, essendo lei stessa la responsabile dell’inizio, come una madre.
Le chiedevo di essere cauta come se temessi che la forza evocata potesse rivoltarsi contro di lei.
Temevo per lei o temevo per me?

Scrivevo, evidentemente, anche per esorcizzare questa forza che non lasciava scampo, che rifuggiva da un’idea consolatoria, solidaristica e difensiva del pensiero delle donne e che si manifestava integralmente nel suo agire.
Scrivevo e capivo di temere che qualcuno potesse prosciugare la sorgente di un desiderio tanto imperioso.
Le dicevo: troppo dài e troppo ti esponi. Le dinamiche intercorse nei tre giorni alla casetta erano arroventate, per niente fluide. Tutte approfittavamo del luogo e dell’evento, molte tuttavia si rivoltavano inconsapevolmente all’autorità di Eloisa che lo aveva creato con un progetto forte, non con una generosità sentimentale e stucchevole.
La sua era politica. Detto con la lingua di allora, senza timore di anacronismi, la sua era autorità.

Io credevo di averlo capito ma la sua reazione alla mia lettera, gelida e combattiva, mi dette conto di quanto, in fondo, la mia idea della politica delle donne fosse ancora legata ad un’immagine fusionale e armoniosa delle relazioni, che rifuggiva dal conflitto e forse vagheggiava inconsciamente un mondo dove la madre fosse solo una lontana garante delle relazioni e non un’autorità imbricata in esse, quindi capace di sostenere il conflitto, la libertà o, perché no, il fallimento.

Questo mi fece capire Eloisa, nella sua risposta un po’ risentita, un po’ impaziente, che mutò la nostra relazione, da quel momento non genericamente improntata alla gratitudine da parte mia, ma concreta, interlocutoria, politica, infine.
Eloisa sapeva la sua autorità e sapeva che non per questo sarebbe stata protetta da tutte le possibili forme del conflitto. La forza scaturiva dalla fedeltà a se stessa e al proprio desiderio.
In cosa consisterebbe altrimenti la libertà e l’autenticità del nostro agire se solo la scelta del momento opportuno, del massimo risultato con il minimo sforzo, ci ispirasse?

P.S. Nell’ ottobre 2006, Eloisa già assente, partecipo al Grande Seminario di Diotima, nella giornata di Luisa Muraro: “Partire da un’altra parte”, è il tema. Riporto qui uno stralcio dell’introduzione, così in dialogo con il mio racconto.
Si tratta di “di stare nelle pieghe del presente, farne esperienza in tutta la sua ambiguità. E proprio da lì, dal suo interno, trovare il filo simbolico che mostri del reale aspetti imprevisti e per noi vitali, che un semplice adattamento ai fatti della realtà non farebbe vedere.
Si tratta di far nascere le cose dal contesto che viviamo, generativamente. Di cogliere che in quel che capita nel mondo c’è di più di quel che ci aspettavamo. Si può aiutarlo non solo nell’inizio ma anche nel suo crescere e prendere forma autonoma”.
In quell’occasione, Luisa Muraro parlò della schivata: un modo di “partire da un’altra parte”. Solo su una cosa, disse, non dobbiamo mai retrocedere, mai negoziare, mai rinunciare. Quella è il nostro desiderio.

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